Votare con un messaggio telefonico uno dei cantanti di Sanremo costa quasi quanto un litro di latte.
Ma c’è una differenza, i 51 centesimi dati alle compagnie telefoniche hanno fatto la ricchezza delle multinazionali delle telefonia, i 60 centesimi dati agli allevatori mettono in ginocchio le aziende e sul lastrico migliaia di famiglie. Non è da ora. La battaglia degli allevatori per avere riconosciuto un prezzo equo per il loro latte (quello di pecora in particolare) va avanti da anni e non è mai stato seriamente affrontato. Il mercato, le leggi europee, la debolezza di una categoria, il disinteresse dei media (almeno fino a quando non si fanno proteste clamorose), hanno contribuito al perpetuare di questa anomalia, che oggi di fronte a quel confronto, un sms contro un litro di latte, esplode in tutta la sua contraddizione. E mentre tonnellate di latte dall’Est Europeo invadono il mercato (ma in questo caso non vale “prima gli italiani?”) si riapriranno tavoli, si faranno incontri e si faranno promesse ma qualcosa va detto anche a chi in questa filiera occupa l’ultimo posto, il più importante: il consumatore. Fino a quando non saremo disposti a pagare un prezzo corretto per un cibo di qualità queste contraddizioni saranno all’ordine del giorno. Una martellante campagna pubblicitaria da anni ci induce a credere che il costo della vita sia dato da quello che mangiamo, solo per giustificare continue corse al ribasso, sconti e sottocosto che paga chi produce non chi vende. Non è la spesa alimentare che ci affama, spendiamo meno del 20% del bilancio familiare per acquistare cibo. Il resto lo fanno i trasporti, la casa, le assicurazioni, l’elettronica, i servizi, la sanità. Sicuri che il risparmio sui tre etti di pecorino salverà il bilancio di questo mese?