Altri tempi quando la scuola non dava da mangiare
A scuola si andava in bicicletta, non perché era ecologico ma perché l’autobus non ci arrivava. La periferia di Firenze cresceva in fretta, i palazzi rubavano ogni giorno un pezzo di terra alla campagna. Ma ho fatto in tempo a vedere la mietitura del grano dalla finestra. Sembrava tutto in trasformazione, tutto provvisorio. Anche la scuola, che non a caso era un prefabbricato. Cresceva con noi, ogni tanto aggiungevano un pezzo. Ma non feci a tempo a veder crescere una cucina e così il mangiare bisognava portarselo da casa. Nel panierino e poi dentro la gamella o il thermos. Spesso era lo stesso della cena, al massimo una fettina di carne cotta al mattino prima di uscire. La pasta era buona. Pasticcio sarebbe meglio dire, l’idea che dovesse esser al dente ancora non mi sfiorava e quando suonava la campanella dell’ultim’ora quell’ammasso rossastro di sugo mi sembrava davvero ottimo. Poi c’era lui, Ernesto. Ernesto era altissimo e magro. Ovviamente portava anche gli occhiali ed era timido. A calcio una foca. Insomma un infelice dentro a un branco di inconsapevoli bestie. Ogni tanto era oggetto dei nostri screzi. E quel giorno toccò a me approfittarmi di lui. I nostri panierini con il pranzo venivano messi al mattino in fondo all’aula, su un tavolo. Allo scoccare dell’ora saremmo andati a prenderli per poi andare in sala mensa a mangiare. Ma quello era il giorno in cui “dovevo“ sbeffeggiare il povero Ernesto. Lo facevano tutti, era un atto dovuto. Di soppiatto mi avvicinai al tavolo, presi il suo panierino e lo misi fuori dalla finestra. Sarebbe stato divertente vedere Ernesto affannarsi nella ricerca, magari versare qualche lacrimuccia. Poi glielo avrei reso e sarebbe finito tutto lì. Ma quello era un giorno sfortunato per lui e anche per me, che infatti ancora lo ricordo. Il panierino che avevo messo fuori dalla finestra era finito proprio sopra un formicaio. Del pranzo di Ernesto non c’era più niente, solo un indefinito monte di maledette formiche spalmate su ogni superficie. Invano offrimmo il nostro pranzo a Ernesto. Dignitoso e forte come mai rifiutò e lo fece senza piangere. Io finì dal preside. Ma la punizione me l’aveva già data Ernesto.